Immaginate di trovarvi in riva al mare. Mentre vi state guardando attorno, ad un certo punto la vostra attenzione viene catturata da alcuni segni strani che compaiono sulla sabbia.

Improvvisamente vi si avvicina una persona che afferma che quelle tracce sono la conferma della sua teoria: sulla spiaggia ci sono dei cavallucci marini. Mentre lo state ascoltando arriva un’altra persona che sghignazza e ride delle affermazioni del tizio di prima. Egli asserisce che lui ha una teoria migliore; le tracce sono state lasciate da anguille. Mentre dialogate con questi due signori ne arriva un terzo che si prende gioco degli altri due e asserisce di avere una teoria migliore di tutte le precedenti: i segni li hanno fatti dei bambini con alcuni bastoni e poi hanno cancellato le impronte dei piedi. Secondo voi chi di questi ha ragione? La risposta più logica è: tutti e nessuno! Fino a quando non si vede la causa effettiva che ha provocato quei segni hanno “tutti” ragione; ma fino al momento della verifica “nessuno” può dire di averla con certezza.
Vi starete chiedendo che cosa c’entri quest’esempio con il titolo di questo capitolo… un attimo e ora ci arriviamo.
Quando vi capita di assistere all’esecuzione di un gioco di prestigio, nessuno di voi penserà che ciò che vede corrisponde realmente a ciò che sta accadendo. Se ad esempio il prestigiatore prende un foulard e lo mette nel suo pugno e pochi secondi dopo questo non c’è più, nessuno avrà pensato che il foulard è sparito realmente. Ognuno di voi sa che il prestigiatore lo ha tolto in qualche modo dal suo pugno, dando l’illusione della sparizione magica.
Con quest’ultimo esempio vogliamo evidenziare che non sempre ciò che si osserva corrisponde sempre a ciò che è.
Facciamo ora un bel salto con la fantasia e trasportiamoci all’interno di un laboratorio di fisica delle particelle. La cosa che ci può saltare all’occhio è che il procedimento adottato per lo studio delle particelle, ricorda un po’ l’esempio delle tracce lasciate sulla sabbia. Quello che effettivamente fanno i fisici nei loro laboratori, non è studiare le particelle subatomiche, ma bensì le tracce che esse lasciano in vari strumenti di misura. Ad esempio uno di questi strumenti era la “camera a nebbia”[1]. Al suo interno era presente un vapore soprasaturo di acqua (una sorta di nebbia fitta) all’interno del quale venivano lasciate passare le particelle. Queste, per effetto del loro passaggio, lasciavano una scia dietro di loro ed effettuando alcune misure si poteva risalire a diverse grandezze cercate. Di questa strumento ne esistono vari versioni più sofisticate ed evolute. Uno utilizza elio liquido in uno stato prossimo all’ebollizione; un altro utilizza una particolare emulsione fotografica che risulta molto sensibile anche per particelle molto piccole. Tutte hanno comunque la stessa idea di base: analizzare la scia lasciata dalla subparticella, per carpirne i segreti. Una volta effettuata l’analisi dei dati si comincia ad armeggiare con la matematica e soprattutto con la meccanica quantistica. Per decenni i fisici hanno continuato questa frenetica ricerca nel mondo subnucleare, approdando alla teoria del modello standard[2].
Ora vogliamo seminare un po’ di dubbi su un lavoro che è andato avanti per più di mezzo secolo. La domanda che ci facciamo è la seguente: e se ciò che si osserva in questi strumenti non ci raccontassero tutto? Spieghiamoci meglio… e se ci fosse dell’altro, noi ce ne potremmo accorgere?
In questo caso bisogna ricollegarsi all’esempio della spiaggia, dove vengono analizzate delle tracce sulla sabbia, e quello del gioco di prestigio, dove vedevamo qualcosa che non è realmente accaduto.
Un’altra cosa da rilevare è il lento sviluppo che ci ha dato la fisica negli ultimi cinquant’anni. Mentre dalla metà dell’ottocento in poi c’è stata un’escalation di scoperte che hanno rivoluzionato la vita di tutti (l’automobile, gli aerei, i treni, il telefono, la radio, la televisione, l’energia nucleare ecc.), negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto solo dei miglioramenti tecnologici, che hanno portato ai computer sempre più complessi, alla telefonia cellulare. A parte questi progressi, la fisica non ci ha portato grosse novità. Dopo l’introduzione della teoria della relatività e lo sviluppo della meccanica quantistica, molti si aspettavano altri progressi mastodontici, tali da permettere al genere umano di fare viaggi interstellari o attraverso il tempo, o chissà quali altre cose fantastiche. Invece tutto questo progresso non c’è stato. Alcuni pensano che il progresso non ci sia stato perché ormai non c’è più nulla da scoprire… ma noi non crediamo che le cose stiano in questo modo.
Inoltre sappiamo che la meccanica quantistica ha messo in evidenza la doppia natura delle particelle: corpuscolare ed ondulatoria. Gli acceleratori di particelle, per loro natura, portano a concentrare grandi energie in spazi molto piccoli. Ma concentrare tanta energia in poco spazio, obbliga la materia a presentarsi nel suo aspetto corpuscolare. Questo ci fa perdere utili informazioni relative all’altro aspetto che è quello ondulatorio. Questi due aspetti della materia non sono in contrapposizione l’uno all’altro, ma raccontano la stessa cosa da punti di vista differenti ed ognuno apporta contributi differenti alla nostra conoscenza dell’infinitamente piccolo.
Alcuni, nel leggere questa nostra trattazione, potrebbero cercare riferimenti al fenomeno del “quantum entanglement” (intreccio quantico)[3], per vedere come si pongono le nostre ipotesi nei confronti di questo importante fenomeno fisico. In questa trattazione, pur riconoscendo l’importanza di un tale fenomeno, non viene portato in conto perché tale informazione alzerebbe notevolmente il livello di complessità di questa trattazione. Infatti, la spiegazione di questo fenomeno chiama direttamente in causa le dimensioni d’ordine superiore e, vista la loro complessità e come si intrecciano fra loro, avremmo dovuto scrivere un libro dentro un altro libro. Se avessimo agito diversamente, quello che ora avete in mano, sarebbe divenuto il primo tomo di una lunga serie ma disponibile fra chissà quanto tempo. Poiché sono dieci anni che stiamo lavorando a questo libro, per evitare che diventassero svariati decenni, abbiamo preferito omettere questi approfondimenti. Dopotutto, ai fini di questa trattazione, l’entanglement è una proprietà fisica che al momento può essere omessa. Come potrete vedere, si arriverà comunque a qualcosa di sostanzioso, senza necessariamente prendere in considerazione questo aspetto.
Detto questo, procederemo per gradi a rivedere gli studi sulla materia tralasciando gli aspetti relativi all’entanglement.
A parte gli studi condotti sui corpi macroscopici, che hanno permesso lo sviluppo della meccanica classica, i primi studi che cominciarono ad interessarsi del mondo microscopico furono quelli sui fenomeni elettrici e magnetici; ed è proprio da qui che dobbiamo cominciare la nostra analisi.
Cominciamo dai fenomeni elettrici. Anche se già conosciuti in epoche più remote, questi fenomeni furono studiati in modo corretto soltanto a partire dal ‘700. I primi studi risalgono a quelli del fisico francese Charles Augustin de Coulomb[4], che per primo quantificò la forza elettrica misurandone l’intensità con degli strumenti rudimentali. La legge[5] che ne deriva è quindi di tipo empirico (cioè ricavata sperimentalmente); in essa compaiono delle quantità che permettono di calcolare la forza che s’instaura fra cariche elettriche. Questa formula ci permette di calcolare i “parametri” della forza elettrica, ma non di sapere il vero motivo per il quale esiste questa forza. Questo fatto rappresenta una notevole difficoltà teorica. Sappiamo che esistono le forze elettriche, sappiamo anche calcolarle, ma non sappiamo perché esse esistano. Può sembrare più un problema a carattere filosofico che di tipo scientifico, ma è di fondamentale importanza sapere perché esistano tali forze.
Quello che ci proponiamo è di capire la natura di queste forze. Per fare questo seguiremo dapprima il percorso “storico” e poi faremo alcune considerazioni. Lo studio sistematico delle forze elettriche inizia, come avevamo già detto, con Coulomb. A lui seguirono una serie di studiosi, molti dei quali rimasero nell’ombra, che fecero grandi progressi nello studio di questi fenomeni. Fra i più illustri ricordiamo Alessandro Volta[6], Luigi Galvani[7], André-Marie Ampere[8], Michael Faraday[9], Heinrich Hertz[10], e James Clerk Maxwell[11].
Dapprima i fenomeni elettrici e magnetici furono studiati come fenomeni separati, cioè l’uno indipendente dall’altro, ma poi alcuni esperimenti cominciarono a mettere in evidenza che una corrente elettrica era in grado di generare un campo magnetico; altri esperimenti mostrarono che un campo magnetico variabile posto vicino ad un corpo conduttore era in grado di generare una corrente elettrica. Era di fatto uno fra i primi esperimenti a mettere in evidenza un legame fra due fenomenologie apparentemente distinte. Ulteriori studi permisero di capire che c’era un legame molto profondo che univa i fenomeni elettrici a quelli magnetici. In particolare Maxwell con un trattato teorico dimostrò che elettricità e magnetismo altro non erano che manifestazioni di una realtà più complessa: l’elettromagnetismo. Dalle sue equazioni[12] si capisce che l’elettromagnetismo in realtà è una sorta d’onda che si muove con velocità molto elevata. Confrontando il risultato che si ottiene dalle equazioni di Maxwell con la velocità della luce, (misurata sperimentalmente con opportuni apparecchi) si resta meravigliati della coincidenza dei due risultati. Ciò porta a dedurre che la luce è quindi un’onda elettromagnetica e pertanto è soggetta alle leggi dell’elettromagnetismo. Infatti gli esperimenti di Hertz prima e di Marconi[13] poi, confermarono che l’intuizione era corretta. Orami la fisica, secondo alcuni fisici dell’epoca, aveva ancora poco da raccontare e, i più ottimisti, pensavano che nel giro di una ventina di anni non ci sarebbe stato più nulla da scoprire. La realtà era tutt’altra cosa. Sì perché, ad un certo punto cominciarono a balzare agli occhi alcuni esperimenti in cui la luce interagiva con la materia in modo un po’ particolare. Fino a quel momento le onde elettromagnetiche avevano manifestato sia proprietà elettriche, sia proprietà magnetiche, ma nessuna proprietà che fosse in qualche modo legata alla massa. Secondo un’ipotesi ben argomentata da un giovane fisico fino ad allora sconosciuto, la luce doveva essere composta da pacchetti molto piccoli chiamati per l’appunto fotoni e che potevano interagire in qualche modo con la materia. Quel giovane fisico si chiamava Albert Einstein[14] e il suo trattato aveva introdotto il concetto di “quanto di luce” gettando così le basi della meccanica quantistica. Successivamente il fisico americano Arthur Holly Compton[15] mostrò con un suo esperimento che i raggi X interagivano con gli elettroni proprio come se fossero fatti di materia anch’essi. Altri esperimenti, come l’effetto fotoelettrico[16] confermarono che l’ipotesi di Einstein era corretta. Ma la teoria continuò a procedere senza il suo supporto e prendendo una strada che lui stesso riteneva sbagliata.
Da quel momento iniziò una nuova fisica: la meccanica quantistica. Le sue leggi intervengono quando sia a che fare con corpi molto piccoli (protoni[17], neutroni[18], elettroni[19], ecc.) oppure con onde elettromagnetiche che hanno una frequenza superiore ad un certo valore.
Ebbene, se noi analizziamo un sistema fisico classico vediamo che le leggi dell’elettromagnetismo ci dicono esattamente ciò che accade; se però qualcuna di queste grandezze in gioco diventa tale da richiedere l’intervento della meccanica quantistica ecco che quelle leggi non valgono più. Quelle che sembravano delle leggi estremamente logiche ed infallibili, tutto ad un tratto non lo sono più e ci si deve affidare a delle leggi che sembrano uscite dalla cabala. Nascono così dei concetti come l’indeterminismo o la dualità onda-particella[20] che sembrano in contraddizione con i concetti di meccanica classica.
La cosa ci lascia un po’ perplessi, anche se il resto della comunità scientifica ha assunto tali concetti come il tao della fisica. Quello che ci disorienta è il fatto che la meccanica classica costruisce un modello fisico che funziona molto bene fino a quando non si cominciano a considerare corpi molto piccoli o onde con frequenze molto alte. Se qualcosa non funziona, più evidentemente ci deve essere un errore di fondo nell’impostazione classica.
Se proviamo a ricontrollare la teoria elettromagnetica alla luce delle scoperte della meccanica quantistica ci rendiamo conto che qualcosa è stato trascurato. La prima grossolana approssimazione sta nel considerare la luce come se fosse costituita da un insieme continuo; la seconda è quella di trascurare gli effetti d’interazione con le masse.
Chiariamo meglio questi punti. Se osservo il mare, la distesa d’acqua che ho di fronte mi apparirà come un insieme continuo, mentre la spiaggia mi apparirà come un insieme discreto. Gli insiemi dove posso contare gli oggetti (ad esempio i granelli di sabbia) si dicono numerabili o discreti; gli insiemi dove non posso contare gli oggetti ma posso prendere parti sempre più piccole a piacere (goccioline per il mare) si dicono innumerabili o continui. In realtà anche il mare è un insieme discreto; infatti possiamo prendere molecole d’acqua, ma occorrono degli strumenti un po’ particolari. Diciamo pure che per i nostri “sensi” il mare ci appare in tutto e per tutto come un insieme continuo.
Ma torniamo alle onde elettromagnetiche. La teoria di Maxwell vedeva queste onde costituite da un insieme continuo; le evidenze della meccanica quantistica ci fanno dire che non possiamo suddividere tali onde in pacchetti piccoli a piacere. Pertanto le onde le dobbiamo considerare costituite da pacchetti “elementari”, cioè non suddivisibili a piacere. Questi pacchetti prendono il nome di fotoni ma per una questione di coerenza (aggiungiamo noi) devono avere tutte le proprietà dell’onda macroscopica. Quest’ultima condizione non viene introdotta nella meccanica quantistica a causa del principio di indeterminazione. Tale principio afferma che non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione e la “velocità”[21] di una particella. In altre parole se so dove si trova la particella, non so con che velocità si muove; se ne conosco la velocità non so dove si trova. Volete un esempio per capire meglio questo principio? Prendete un tavolo da biliardo e disponete sopra delle biglie come si fa consuetamente per iniziare una partita. Nel momento in cui il giocatore sferra il colpo di partenza spegnete la luce. Sapete ora dove si trova la biglia con il numero 8? No… vero? Voi direste… e grazie abbiamo spento la luce! Bene ora in queste condizioni come potreste fare per sapere la posizione di una biglia? Un modo semplice (a parte accendere la luce) è quello di inserire una mano nel tavolo, e cercare di sentire se nella posizione che abbiamo scelto c’è una biglia. In questo modo scopriamo la posizione di una biglia, ma non dov’è diretta né con che velocità si sta muovendo. Se mettete la vostra mano ad un’altezza tale da sfiorare le biglie, allora potete sapere se in quella posizione sta passando una biglia; potete pertanto sapere dov’è diretta e, grossomodo, anche con che velocità si sta muovendo. Non potete però sapere la posizione esatta. Bene questo, grossomodo è il principio di indeterminazione. In realtà è un concetto un po’ più complesso, perché dimostra anche di avere delle proprietà di “non-località”. Vale a dire che se ho due biliardi in due stanze separate sempre al buio, e in un qualche modo ho creato un legame tra una biglia che si trova sul primo tavolo in una stanza e quella che si trova sul secondo tavolo dell’altra stanza, allora inserire una mano per interagire con una biglia che si trova sul primo tavolo, ha anche l’effetto di modificare la biglia che si trova sul secondo tavolo. Ma questo aspetto per ora non ci interessa e limitiamoci solo al primo esempio che abbiamo usato per esporre questo principio fisico.
In ogni caso, questo principio lo possiamo però aggirare mentalmente; infatti il principio interviene ogni qualvolta in cui noi tentiamo di misurare queste grandezze, ovvero quando introduciamo un elemento di disturbo nel sistema (nell’esempio precedente l’elemento di disturbo del sistema era la vostra mano). Noi invece non introduciamo nessun elemento di disturbo nelle onde in esame; diciamo semplicemente che se l’onda da un punto di vista macroscopico ha certe caratteristiche, allora queste caratteristiche le dobbiamo ritrovare anche nell’onda microscopica (fotone[22]), senza però prenderci la briga di andarle a misurare perché sappiamo che interverrebbe il famigerato principio di indeterminazione ad impedircelo. Quindi laddove non possono arrivare i nostri strumenti, proviamo ad arrivarci con la logica e vediamo cosa succede e dove ci porta tutto questo ragionamento.
Detto questo vediamo allora di capire come sono fatte le onde elettromagnetiche dal punto di vista macroscopico.
Dalla teoria elettromagnetica apprendiamo che un campo elettrico è una regione di spazio dove agiscono forze di natura elettrica, mentre un campo magnetico è una regione di spazio dove agiscono forze di natura magnetica. Affinché sia presente un campo elettrico non è necessario che sia presente una carica elettrica nelle vicinanze, così come non è necessario che sia presente un dipolo magnetico affinché esista un campo magnetico. Un campo elettrico è in grado di mettere in movimento gli elettroni in alcuni materiali, generando quella che viene denominata corrente elettrica; una corrente elettrica costante è in grado di generare un campo magnetico costante, ma un campo magnetico costante non genera una corrente elettrica. Sempre dalla teoria elettromagnetica apprendiamo che un campo elettrico che cambia nel tempo produce un campo magnetico che cambia nel tempo; anche un campo magnetico variabile nel tempo produce un campo elettrico variabile nel tempo. Questi ultimi due fatti ci interessano in modo particolare. Infatti, se il campo magnetico variabile produce quello elettrico variabile e quello elettrico a sua volta produce quello magnetico si può innestare un processo a catena. Ad esempio se prendiamo un filo elettrico e ci applichiamo un campo elettrico variabile, avremo una corrente elettrica variabile nel tempo. Questa, a sua volta, produce un campo magnetico variabile nel tempo il quale ne produce uno elettrico (e variabile nel tempo), e dal quale ne nasce uno magnetico (sempre variabile) e così via. Questo è il fenomeno elettromagnetico.
Detto in questo modo sembra che si possano generare una quantità enorme di onde elettromagnetiche. In realtà il fenomeno di propagazione elettromagnetica avviene solo quando la lunghezza del filo elettrico diventa confrontabile con la “lunghezza d’onda” del segnale che si deve propagare, consentendo così all’energia che percorre il filo di allontanarsi dal filo stesso grazie al fenomeno elettromagnetico.
Non entreremo ulteriormente nei dettagli anche perché non vogliamo annoiare il lettore con questioni troppo tecniche.
E’ pero necessario che il lettore abbia un po’ di conoscenze sui vettori, per cui, a vantaggio di quei lettori che si stanno appassionando alla lettura di questo libro, ma che hanno dei vaghi ricordi scolastici, inseriamo qui di seguito alcune nozioni di base sui vettori.
Un vettore è un ente matematico che viene individuato da quattro parti:
- una retta;
- un punto di applicazione;
- un verso;
- un modulo.
Per la retta credo che ci sia poco da dire; per il punto di applicazione diciamo che è il punto dove è “applicato” il vettore; il verso stabilisce una direzione di percorrenza; il modulo ci dice quanto è lungo il vettore.
A titolo di esempio riportiamo la seguente figura:

Possiamo notare che con la lettera “r” abbiamo indicato la retta; con la lettera “a” il punto di applicazione del vettore “V”; con la lettera “l” il modulo (o lunghezza) del vettore; e in prossimità della lettera “b” vi è una freccia che indica il verso e contemporaneamente la fine del vettore stesso. Generalmente, quando si disegna un vettore si omette la retta “r” e ovviamente non si mettono le linee di quotatura; in altre parole un vettore lo si disegna nel modo seguente:

Bene, ora questo concetto viene applicato ai campi elettrici e ai campi magnetici, in quanto essi possiedono (in accordo con i vettori) un verso, un intensità (modulo), e un punto di applicazione.
Il verso del vettore viene scelto in base ad una convenzione, secondo la quale la freccia “entra” nelle cariche negative ed esce dalle cariche positive. Questa scelta deriva dal fatto che storicamente furono usate le cariche positive per verificare la presenza di un campo elettrico; tali cariche vennero chiamate “cariche di prova”. Infatti, le frecce entranti nelle cariche negative stanno ad indicare che quello corrisponde al verso di percorrenza di un’ipotetica carica di prova che venisse posta nelle vicinanze, e per la stessa ragione sono uscenti da quelle positive.
Qui di seguito riportiamo come esempio la rappresentazione del campo elettrico di una carica positiva e di una carica negativa.


I vettori che escono dalla carica positiva e quelli che entrano nella carica negativa, si chiamano “linee di forza” del campo elettrico. E’ interessante notare che ciò che abbiamo disegnato vale soltanto nel caso in cui la carica positiva e negativa sono molto lontani fra di loro tali da rendere trascurabile ogni interazione. Se invece le cariche sono molto vicine a tal punto che la loro interazione non è più trascurabile allora si ha qualcosa che è molto simile alla figura seguente.


Nella figura di sinistra vediamo l’interazione fra due cariche dello stesso segno, che nella fattispecie sono positive; nella figura di destra vediamo l’interazione fra due cariche di segno opposto.
Le più piccole cariche che troviamo in natura (in forma stabile) sono l’elettrone e il protone. L’elettrone, come è noto, ha carica negativa, mentre il protone ha carica positiva. Vista la loro grandezza così estremamente piccola, l’elettrone e il protone sono considerati in fisica classica pressoché puntiformi, cioè assimilabili a dei punti geometrici. In altri casi, quando la loro grandezza non è più trascurabile vengono visti come delle sferette molto piccole.
Assumiamo per ora il modello sferico, come un modello corretto e procediamo nella nostra analisi.
Prendiamo quindi un filo metallico di rame e colleghiamolo ad una batteria. Facciamo in modo che il filo passi attraverso un foglio di carta, sul quale avremo disposto della limatura di ferro. Diamo dei piccoli colpetti al foglio affinché la limatura possa disporsi bene sulla superficie del foglio stesso. Osserveremo che per effetto della corrente elettrica, la limatura di ferro non si dispone casualmente, ma segue dei cerchi concentrici. A riprova di ciò possiamo anche avvicinarci a questo filo con l’ago di una bussola; l’ago si disporrà sempre in modo tangente ai cerchi che si sono formati sulla limatura di ferro. La figura seguente dovrebbe illustrare meglio questo fatto.

Con le linee concentriche di colore grigio abbiamo indicato la limatura di ferro; con la freccia nera abbiamo indicato l’ago della bussola; con la freccia contrassegnata con la lettera I abbiamo indicato il verso della corrente elettrica.
Questo esperimento ci fa notare che le cariche elettriche sono circondate da un campo magnetico che diventa rilevante quando una buona parte delle cariche si muovono tutte nello stesso verso. Infatti, se prendiamo l’ipotetica carica sferica ed immaginiamo che essa giri su se stessa come una trottola ecco che quel moto vorticoso può essere assimilato al campo magnetico che diventa “visibile” solo quando gli elettroni si muovono in modo ordinato. Quindi la nostra particella, per ora, ce la immaginiamo come una sferetta carica, attorno al quale gira vorticosamente un campo magnetico.

Capito questo facciamo un altro passo avanti. Poniamo accanto al filo precedente un altro filo di rame, però non collegato a nessuna batteria.
Nel filo di destra abbiamo fatto in modo che la corrente elettrica non fosse più costante nel tempo, ma variabile. Infatti, la notazione I(t), sta ad indicare una corrente I che cambia con il passare del tempo t. Sul secondo filo ci colleghiamo uno strumento per verificare un eventuale passaggio di corrente. In queste condizioni ci accorgiamo che avendo una corrente variabile nel tempo sul filo di destra, avremo anche una corrente variabile nel tempo anche sul filo di sinistra. Questo fenomeno viene comunemente chiamato “induzione elettromagnetica[23], in quanto la corrente elettrica variabile ha “indotto”un campo magnetico variabile che a sua volta ha generato una corrente elettrica variabile nel filo di destra.
E’ da notare che in tutti questi esperimenti viene ad evidenziarsi una peculiarità tipica dei fenomeni elettromagnetici: il campo elettrico e il campo magnetico sono sempre ortogonali fra loro. Inoltre se il campo magnetico è orientato in un modo, il campo elettrico non può che essere orientato ortogonalmente e in un verso ben preciso.
Condensando questi fatti arriviamo a definire l’onda elettromagnetica. In realtà, per descrivere l’onda elettromagnetica sarebbe necessaria una trattazione più approfondita, ma ciò andrebbe ad appesantire la nostra trattazione. Ciononostante, il lettore dovrebbe essersi fatto comunque una vaga idea dei fenomeni elettromagnetici.
Ora vediamo come si propaga un’onda elettromagnetica. Per un teorema di Fourier[24] che non stiamo qui ad esporre, è possibile scomporre un segnale complesso nella somma di tanti segnali monocromatici. In virtù di un altro principio (chiamato “sovrapposizione degli effetti”) si può analizzare l’effetto di ogni segnale monocromatico e per poi sommarli tutti per ottenere l’effetto complessivo del segnale di origine.
Un segnale si dice monocromatico quando contiene una sola frequenza; ciò implica che il segnale monocromatico ha un andamento sinusoidale. Nella figura seguente è riportata un’onda monocromatica.

Con il vettore “A” si è indicata l’ampiezza massima dell’onda, mentre con “T” si è indicato il periodo. Con la parola “periodo” si intende la durata di tempo necessaria affinché l’onda transitante si riporti nelle condizioni fotografate in precedenze. Questo vuol dire che il periodo può essere misurato partendo dal punto dove c’è il passaggio per lo zero in fase crescente (come nella figura), oppure da una cresta all’altra o da un avvallamento all’altro. La frequenza, per definizione è l’inverso del periodo, e rappresenta il numero dei cicli completi che vengono effettuati in un secondo. Ovviamente per ciclo completo si intende quello che risulta pari al periodo “T”. Il vettore “A” può essere una grandezza fisica qualsiasi: lunghezza, pressione, temperatura, campo elettrico, campo magnetico ecc. Ad esempio, se voi gettate un sasso nello stagno, osserverete che le onde che si allontanano hanno proprio una forma sinusoidale.

In quel caso l’ampiezza, rappresenta proprio un dislivello e il periodo la distanza fra due creste consecutive. Se si scatta un’istantanea dell’onda, allora la distanza fra una cresta e quella immediatamente a lei vicina si misura in metri. Questo è il motivo per cui tale distanza prende anche il nome di lunghezza d’onda e si indica generalmente con la lettera greca l.
Ma torniamo alle onde elettromagnetiche. Ora, forti del concetto di onda monocromatica, cerchiamo di capire la propagazione delle onde, prendendo in esame un onda monocromatica.
Nella propagazione si è giunti alla conclusione (di cui non diamo una dimostrazione) che il campo elettrico e il campo magnetico si propagano seguendo una regola che viene per l’appunto definita come “regola della mano destra”.
Il campo elettrico, a quanto pare, si dispone sempre perpendicolarmente al campo magnetico e perpendicolarmente al verso di propagazione dell’onda. Tale disposizione non è casuale e segue un criterio ben preciso; per una questione mnemonica, si è scelto di usare la mano destra per poter identificare il verso dei vettori. In realtà non si conosce perché la natura segua questo criterio e non un altro; l’unica cosa che è certa è che i campi seguono questa disposizione. Per aiutarci, abbiamo inserito un’illustrazione che serve per visualizzare la disposizione vettoriale.

Nella figura soprastante abbiamo disegnato la mano destra con le tre dita aperte: pollice, indice e medio. Il pollice punta verso l’alto, l’indice punta di fronte voi e il medio punta alla vostra sinistra. Prendiamo un’onda elettromagnetica; disponiamo il pollice nella stessa direzione del campo elettrico (che convenzionalmente viene indicato con la lettera “E”); disponiamo l’indice nella direzione del campo magnetico (lettera “B”). Il dito medio ci dà il verso in cui si propaga l’onda elettromagnetica. Se l’onda è monocromatica, allora avremo qualcosa che assomiglia alla figura seguente:

Con il colore nero abbiamo disegnato l’andamento del campo elettrico; con il colore grigio chiaro tratteggiato quello del campo magnetico. Le tre frecce: grigia scura, grigia tratteggiata e nera servono ad identificare rispettivamente il campo elettrico, il campo magnetico e la direzione di propagazione in un determinato punto dell’onda. Servono anche a mettere in evidenza che campo elettrico, campo magnetico e direzione di propagazione sono sempre perpendicolari fra loro.
Ora che abbiamo illustrato le onde elettromagnetiche da un punto di vista macroscopico, passiamo ora ad un punto di vista microscopico. Abbiamo detto che per aggirare il principio di indeterminazione, supponiamo che il fotone abbia le stesse caratteristiche dell’onda macroscopica. L’unica cosa che differenzia il fotone dall’onda macroscopica è che l’onda può essere suddivisa in onde più piccole, il fotone no! Per realizzare questa condizione basta immaginare un’onda elettromagnetica di una lunghezza molto piccola, ovvero con un numero di cicli limitati. Ad esempio nella figura più in basso abbiamo disegnato un possibile fotone, composto da tre cicli soltanto. Con “Lf” abbiamo indicato la lunghezza del fotone. Questa, per motivi fisici legati alla materia è fissa ed è uguale per tutti i fotoni. Questa ipotesi avrebbe come conseguenza il fatto di generare una costante che si dovrebbe riscontrare in tutti i fotoni; in effetti in fisica si osserva che l’energia dei fotoni è proporzionale alla loro frequenza secondo una costante h che va sotto il nome di “costante di Planck[25]”. D’altra parte, quelli a frequenza maggiore, conterranno all’interno dello stesso spazio “Lf” un numero di cicli maggiore. Ad ogni ciclo pieno è associata una certa quantità d’energia che è fissa e ha lo stesso valore per tutti. Quei fotoni che ne contengono di più avranno ovviamente più energia.

Bene, fino a questo momento abbiamo introdotto poche ipotesi nuove; anzi abbiamo detto delle cose già conosciute ma sotto un’altra luce. Pertanto quello che abbiamo fatto è stato un excursus sui campi elettromagnetici, illustrandone le basi fondamentali. Ora però, visto che il lettore ha avuto la pazienza di seguirci fin qui, andiamo oltre e proviamo a fare qualche ipotesi nuova.
Ora partiamo da un esperimento[26]. Mettiamo in collisione un elettrone e un positrone (detto anche, in maniera etimologicamente più corretta, positone o anche antielettrone)[27] e vediamo cosa succede. Vediamo entrare negli apparati due particelle (l’elettrone e il positrone) e vediamo uscire due fotoni che formano fra loro un angolo di 180°.

Se proviamo a cercare le particelle di partenza ci accorgeremmo che sono sparite nel nulla.

La meccanica quantistico-relativistica, infatti, prevede che da una collisione del genere ci sia appunto la trasformazione delle due particelle in fotoni, o meglio “della scomparsa degli stati quantici associati alle particelle e della comparsa dei fotoni”. Sono dei paroloni grossi che non vogliamo approfondire più di tanto, ma che lasciano comprendere al lettore che dietro c’è un apparato matematico complicato. Ora, da un punto di vista matematico la meccanica quantistica sembra darci una spiegazione esauriente. Ma se le chiediamo cosa è successo realmente e la interroghiamo chiedendole di andare al di là degli stati quantici[28] o dei numeri barionici[29], questa non sa cosa risponderci. La meccanica quantistica, per come è concepita non azzarda nemmeno uno stralcio di ipotesi. Per lei, c’è una scatola magica dove intervengono degli operatori matematici che agiscono come una bacchetta magica, facendo sparire le particelle da una parte e facendo apparire i fotoni dall’altra… e i diagrammi di Feynman[30], come sapranno i lettori più preparati, confermano questo linea di pensiero.
Ma a noi non interessano i numeri, la matematica o altri strumenti… a noi interessa sapere cos’è successo lì dentro.
Proviamo ad azzardare due ipotesi:
- le particelle (nell’esempio precedente l’elettrone e il positrone) non esistono: sono fotoni richiusi su se stessi che assumono un aspetto “massivo”, mentre in collisione materia contro anti-materia si riaprono per tornare ad essere fotoni;
- i fotoni non esistono: sono particelle molto veloci che in particolari condizioni perdono completamente la massa raggiungendo la massima velocità che possa esistere (quella della luce).
Di queste due ipotesi la seconda ci sembra
un pò più contorta e difficile da trattare per una spiegazione logica e senza
forzature. Dopo la scomparsa della
massa, la presunta particella passerebbe da una velocità molto bassa ad una
velocità pari a quella della luce. Di fatto ci sarebbe un’accelerazione
violentissima e dispendio di energia durante la fase di accelerazione. Inoltre
ci sarebbero non pochi problemi ad una descrizione relativistica del fenomeno.
Invece la prima ipotesi, per quanto possa anch’essa sembrare assurda ha
qualcosa che riesce a mantenere coerenza con le equazioni di Maxwell, con la
relatività generale e con la meccanica quantistica… e poi vedremo bene il
perché. Quindi partiamo proprio da quest’ipotesi e iniziamo a fare qualche congettura
nel prossimo paragrafo.
[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Camera_a_nebbia
[2] http://it.wikipedia.org/wiki/Modello_standard
[3] http://it.wikipedia.org/wiki/Entanglement_quantistico
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Augustin_de_Coulomb
[5] http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Coulomb
[6] http://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Volta
[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Galvani
[8] http://it.wikipedia.org/wiki/Andr%C3%A9-Marie_Amp%C3%A8re
[9] http://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Faraday
[10] http://it.wikipedia.org/wiki/Heinrich_Hertz
[11] http://it.wikipedia.org/wiki/James_Clerk_Maxwell
[12] http://it.wikipedia.org/wiki/Equazioni_di_Maxwell
[13] http://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Marconi
[14] http://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Einstein
[15] http://it.wikipedia.org/wiki/Arthur_Holly_Compton
[16] http://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_fotoelettrico
[17] http://it.wikipedia.org/wiki/Protoni
[18] http://it.wikipedia.org/wiki/Neutroni
[19] http://it.wikipedia.org/wiki/Elettroni
[20] http://it.wikipedia.org/wiki/Dualit%C3%A0_onda-particella
[21] sarebbe più corretto dire “quantità di moto”, ma anche la parola “velocità” rende l’idea comprensibile
[22] http://it.wikipedia.org/wiki/Fotoni
[23] http://it.wikipedia.org/wiki/Induzione_elettromagnetica
[24] http://it.wikipedia.org/wiki/Joseph_Fourier
[25] http://it.wikipedia.org/wiki/Costante_di_Planck
[26] http://it.wikipedia.org/wiki/Annichilazione_elettrone-positrone
[27] http://it.wikipedia.org/wiki/Positrone
[28] http://it.wikipedia.org/wiki/Stato_quantico
[29] http://it.wikipedia.org/wiki/Numero_barionico
[30] http://it.wikipedia.org/wiki/Diagramma_di_Feynman